Aconcagua, il Tetto d’America

Il 6 gennaio 2006 è la vigilia dell’ascesa alla vetta più alta del continente americano.
Mi trovo a Nido de Condores, ampio catino detritico posto a circa 5500 metri di quota e ultimo campo avanzato prima della salita finale. Di fronte a me, la visione di uno spettacolare tramonto e la rara magia di un mondo infuocato. Sembra che qualcuno si sia divertito a colorare la natura di un magnifico rosso acceso, con qualche spruzzata qua e là di alcune sfumature di arancione. Sopra di me, la vetta nord dell’Aconcagua appare come un rosso e irraggiungibile miraggio. Verso nord, unico punto aperto dove lo sguardo può spaziare verso l’orizzonte, il vento ha addensato tutte le nuvole in una sola. Riflessi rosati ne colorano l’immensa superficie che spazia dalla terra al cielo senza soluzione di continuità.

Chiudo gli occhi per un attimo cercando di incatenare per sempre dentro di me la miriade di emozioni che sto vivendo, mentre a lungo rimango immobile ad osservare il mondo che pian piano si scolora. Nonostante sia calato un freddo intenso, non riesco a rientrare in tenda fino all’istante in cui tutto all’improvviso si spegne. In questi attimi crepuscolari mi sento una cosa sola con la natura e un senso profondo di pace interiore abbatte in un solo colpo le ultime paure e incertezze. Ora non ho più dubbi. Ritorno in tenda a preparare lo zaino e poco dopo sono già disteso nel sacco a pelo. Non mi preoccupo minimamente di preparare la sveglia per l’indomani, sicuro che sarà la montagna ad avvisarmi quando lo riterrà più opportuno.

Poco dopo le 2 del mattino del 7 gennaio, mi sveglio in preda ad una strana agitazione. Per qualche minuto provo inutilmente a riaddormentarmi, ma mi ritrovo invece con gli occhi spalancati nel buio della tenda. Una forza misteriosa pervade all’improvviso il mio corpo attraversandolo come una lama. Nella testa ripassa in continuazione una voce lontana che parla una lingua sconosciuta. Ogni secondo che passa la sento sempre più nitidamente, ma non riesco in alcun modo a decifrarla. Sembra quasi una ninna nanna cantata da una madre al figlio. E per un attimo mi sento proprio come se fossi tra le braccia di una madre. Lentamente mi pervade un senso di serenità e sicurezza. La ragione è restia a voler interpretare una cosa del genere, ma dentro di me si definisce pian piano come la chiamata della montagna che tanto stavo aspettando. Senza altri indugi comincio a vestirmi alla luce della pila frontale, recuperando tutti gli indumenti stipati nel fondo del sacco a pelo. Termino rapidamente di preparare lo zaino e inizio a fare colazione. Non riesco a mangiare quasi nulla, ma mi sforzo di bere più che posso. Pochi minuti dopo, mi ritrovo a scrutare l’immensità del cielo stellato. L’aria è completamente ferma e non fa per nulla freddo. Tutt’intorno regna un’oscurità totale, tagliata appena dal flebile fascio della frontale.

Sono le tre del mattino che inizio a muovere i primi passi tra un groviglio di emozioni e sensazioni fortissime, difficili da decifrare e descrivere. Mi sento in ottime condizioni fisiche e, nonostante una leggera tensione alla testa, forte come non mai. Il primo tratto è una facile traversata in piano, intervallata da brevi discese in canali di ogni dimensione, utile per raggiungere le rocce rotte che si inerpicano ripide lungo il versante nord della montagna. Cammino concentrato a piccoli passi ben ritmati, cercando di stare attento a non aumentare per abitudine l’andatura. Seguono numerosi tornanti e ripidissimi tratti di ghiaie, che ora risalgo con passo necessariamente lento. L’attenzione nel seguire la traccia è massima, ma più avanzo e più sembra sparire sotto i miei passi. Risalgo ancora alcuni ripidi tratti, mentre qualche folata di vento comincia a sferzarmi il viso. Di tanto in tanto, qualche piccolo terrazzino agevola una breve pausa di riposo, permettendomi così di tirare il fiato. Quando un nero precipizio mi sbarra la strada, mi rendo conto di essere fuori via. Non riesco a capire dove posso aver sbagliato, ma ora la cosa più importante è recuperare al più presto l’orientamento. Il precipizio mi impedisce di realizzare la traversata che presumo possa farmi recuperare la traccia di sentiero, lasciandomi come unica soluzione la risalita di un ripido pendio di macereti e ghiaie instabili. Mi ritrovo così in una zona simile alle sabbie mobili, dove la gamba sprofonda fin quasi al ginocchio. L’unico modo per uscirne è saltare su grosse pietre sparse qua e là. Sento più volte la caviglia scricchiolare sugli appoggi improvvisati e malsicuri. Secondo l’altimetro sono abbondantemente sopra i 6000 metri di quota, ma non ho ancora raggiunto Campo Berlin. Sono decisamente fuori via e sto perdendo troppo tempo. Il timore di non riuscire a trovare la traccia incomincia a minare la mia tranquillità. Cerco di recuperare la calma. Riprendo a salire camminando su un altro tratto particolarmente instabile di pietre e ghiaie finchè, aggirato uno spigolo, intravedo la possibilità di realizzare la tanto sospirata traversata. Percorro ora una sorta di grande ballatoio sopra il precipizio e tenendomi sotto le pareti verticali di un contrafforte raggiungo finalmente una debole traccia di sentiero. Quest’ultimo spostamento mi fa perdere parecchie decine di metri faticosamente guadagnati. Sono quasi le sei di mattina e una prima debolissima luce segnala l’imminente arrivo dell’alba.

Ora il vento è fortissimo e il freddo molto intenso. All’improvviso, un centinaio di metri sotto di me, appare Campo Berlin. Un rapido sguardo a quel piccolo mondo di uomini aggrappato ai fianchi della montagna e, cosciente di aver perso fin troppo tempo, riprendo a salire. Poco dopo scorgo una breccia che interrompe la verticalità della parete. Pochi metri di secondo grado con buoni appigli e mi ritrovo su di una terrazza. Davanti a me finalmente la traccia della via normale che risale con numerosi tornanti per perdersi più in alto in uno scuro canalone. Rincuorato, riprendo a salire faticosamente, ma con un buon passo. Nei pressi di un anfratto, al riparo dalle sferzate del vento sempre più insistenti, mi fermo per qualche minuto di riposo. L’altimetro segna quasi 6300 metri e la mancanza di ossigeno inizia a farsi sentire. Non ho per nulla fame ed anche se volessi non potrei comunque mangiare nulla. Le barrette energetiche sono dure come le pietre ed anche il miele è completamente congelato. Anche se non ne ho voglia, mi sforzo di bere un po’ di tè, ma è sufficiente un solo sorso a provocarmi un forte senso di nausea. Va meglio con la borraccia di acqua e sali dalla quale riesco a bere con più facilità alcuni piccoli sorsi.

Raggiunta una forcella, si apre la visione di un altro grande e ripidissimo canalone, delimitato in alto da un contrafforte semicircolare. Stretti tornanti lasciano il posto ad una traccia che si inerpica quasi verticale a raggiungere una breccia nella roccia, unico punto debole di tutto il contrafforte. Di minuto in minuto il cielo si fa sempre più azzurro, mentre ora il sole innonda di luce il canalone, anche se la temperatura rimane invariabilmente molto bassa. Il vento fa sentire la sua presenza con forti e improvvise raffiche, intervallate da brevi momenti di pausa. Mi concentro nuovamente sul ritmo e ricomincio a salire un passetto alla volta. Dopo i primi facili tornanti, arranco faticosamente lungo il ripidissimo tratto di salita. Sento la quota, ma continuo senza pause. Stringo i denti. Ora mancano pochissime decine di metri alla fine di questo difficile tratto, ma una scivolata mi mette in ginocchio. Ne approfitto per una pausa, mentre con profondi respiri cerco di recuperare le forze per continuare. Mi aiuto con i bastoncini per rialzarmi e riprendo a mettere un passo dopo l’altro. Finalmente raggiungo il limite dell’intaglio. Davanti a me, nel mezzo di un piccolo spiazzo pianeggiante circondato per tre quarti da rocce verticali e da un ripido ghiaione, una capanna in legno, dalla forma triangolare e semidistrutta, testimonia che sono arrivato a Campo Independencia, a 6400 metri di altezza. È un posto decisamente riparato e il vento sembra concedere una tregua. Oltre la capanna, un tratto molto ripido porta in alto e verso destra ad un risalto che pare facilitare il passaggio oltre il crinale che scende da nord. Alla mia sinistra si apre invece una forcella che prosegue in un salto verticale di parecchie centinaia di metri. Una spettacolare finestra sul mondo che permette agli occhi di spaziare in un bianco mare di vette altissime. In lontananza, una certa velatura e alcuni grossi nuvoloni, che stanno montando sopra alcune vette, attraggono la mia attenzione, ma nel complesso il tempo è stabile e per nulla preoccupante. Mi sforzo di bere qualcosa, ma non riesco ancora a mangiare nulla. Appoggiato alla roccia, chiudo gli occhi per qualche minuto cercando di recuperare nuova forza e determinazione.

Ogni tanto volgo lo sguardo verso l’orizzonte per perdermi tra le altezze e i silenzi delle vette. Mi sento felice e vorrei bloccare il tempo, fermandomi qui, ma invece riprendo a salire lentamente con una nuova serie monotona e ritmata di piccoli passi. Sempre più frequentemente mi aiuto con i bastoncini, cercando di scaricare almeno un po’ di fatica dalle gambe. Quando arrivo nei pressi del crinale, il soffio del vento, che si fa sempre più intenso, mi fa intuire quello che mi aspetta da qui a poco. Lo sento rumoreggiare forte pochi metri sopra di me, ma senza che sia ancora in grado di investirmi con tutta la sua potenza. Per il momento mi protegge la particolare posizione del tratto che sto risalendo, che si pone perpendicolarmente alla direzione del vento, ma appena oltrepasso il crinale, mi investe un vento continuo e fortissimo. Riesco a stare in piedi solo a stento e devo fare strane acrobazie per non essere letteralmente spinto a terra. Di fronte a me il Gran Traverso. Si tratta per l’appunto di un lunghissimo traverso che taglia un immenso e ripido ghiaione che origina come una ferita dalle rocce basali della piramide terminale dell’Aconcagua. Ne seguo metro per metro tutto lo sviluppo, fino a che non scompare come ingoiato dai bastioni di roccia che in lontananza si innalzano verticali. Una spaccatura della roccia, che dalla mia posizione vedo solo in modo parziale, segna l’inizio della Canaleta. È così chiamato il ripidissimo canalone detritico, spesso ghiacciato e con pendenze che raggiungono i 60 gradi, che separa come una lama le due cime dell’Aconcagua. È l’unico punto debole e percorribile con relativa facilità del tratto terminale della via. Lo sguardo cerca di focalizzare la vetta che ancora si nasconde dietro scure pareti rocciose che si alzano verticali per centinaia di metri. Osservo ammirato l’immensa mole che mi sovrasta.

Mi rendo subito conto di avere ancora parecchia strada da percorrere e, dopo la breve pausa, riparto deciso per affrontare il traverso. L’istante successivo comprendo immediatamente l’estrema difficoltà a percorrere questo tratto. Il vento non lascia tregua e mi colpisce frontalmente con raffiche che raggiungono i 100 km/h, spingendomi inesorabilmente indietro. Contemporaneamente vengo investito da continue nuvole di polvere e pietrisco, mentre i piedi affondano nelle ghiaie rendendo ancor più difficoltoso il già lento incedere. Come se ciò non bastasse, nonostante il traverso sia almeno parzialmente battuto dal sole, sono costretto a confrontarmi anche con una temperatura bassissima, tipica delle alte quote e aggravata dal vento continuo. Il rischio di congelamento delle estremità del mio corpo è altissimo e più volte sono costretto a fermarmi per frizionare le mani pericolosamente ghiacciate, nonostante indossi ben tre paia di guanti. Ma tutto ciò non mi intimorisce e continuo deciso ad avanzare. Per facilitare l’avanzamento adotto la sempre valida tattica dei piccoli passi, imponendomi di raggiungere traguardi posti a breve distanza l’uno dall’altro. Il premio per il raggiungimento di ogni piccolo traguardo è una pausa di riposo.

L’impegno fisico e mentale che richiede questo tratto è totale. Arranco lento, passo dopo passo, con estrema difficoltà. Spesso scivolo indietro, soprattutto quando le pendenze aumentano appena di qualche grado. Di certo non mi aiutano la quota, sempre più alta, nè tantomeno le molte ore di marcia senza adeguata alimentazione e idratazione. Poco oltre la metà del traverso, scorgo uno splendido dente di roccia che affiora solitario dalle ghiaie. È alto una trentina di metri ed è posto sulla destra del sentiero così da formare, con il pendio ghiaioso posto a sinistra, una sorta di portone attraversato dalla traccia di sentiero. Ad ogni pausa ammiro la splendida bellezza delle forme di questo monolite, mentre verso est si aprono in continuazione nuovi e meravigliosi scorci nell’orizzonte dipinto di cielo e montagne. In questo momento sono però troppo stanco e concentrato sui passi per godere appieno dello spettacolo che si presenta dinnanzi ai miei occhi. Trasformo il monolite in un nuovo traguardo da raggiungere al più presto, con la speranza di poterne sfruttare le slanciate pareti per ripararmi e sfuggire, almeno per qualche minuto, dalle continue sferzate del vento. Nonostante le pause, sempre più ravvicinate, arranco sempre più stanco e provato, mentre conto mentalmente ogni singolo passo che mi divide dalla meta successiva.

Quando arrivo in prossimità del monolite la delusione è tanta. Per tre quarti le pareti si gettano nel precipizio, mentre quella più interna, sfiorata dalla traccia di sentiero, non solo non permette di ripararsi dal vento, ma ne comporta addirittura una maggiore esposizione. Infatti, la grossa breccia naturale va a costituire un punto preferenziale dove il vento incanalandosi prende ancor più vigore, raggiungendo così velocità elevatissime. Risulta impossibile fermarsi in questo punto e saltando la pausa continuo ad avanzare per allontanarmi il prima possibile. Mi fermo, completamente esausto, alcune decine di metri oltre la breccia. Faccia a terra e appoggiato con il corpo ai bastoncini, cerco nuovamente di recuperare le forze e di concentrarmi sui passi successivi. Per l’impegno mentale, sembra quasi di sfidare la montagna in una partita a scacchi. Non manca molto e non sbaglio valutando di circa trecento metri la distanza che mi separa dalla fine del traverso, anche se in questo tratto le pendenze aumentano decisamente. Riprendo ad avanzare sprofondando nei detriti fin sopra la caviglia. La fatica mi fa barcollare ed ora è talmente intensa che ogni quattro-cinque passi mi devo fermare per una pausa. Un paio di volte sono costretto ad accasciarmi a terra per cercare di recuperare più facilmente le forze. Dopo più di due ore di lotta, arrivo finalmente alla fine del traverso, nei pressi di un grosso anfratto roccioso dove trovo un ottimo riparo. Il vento all’improvviso cessa quasi di soffiare, trasformandosi in una brezza che leggera mi sfiora appena. Sono a circa 6650 metri, esausto, ma contento e fiero di aver vinto questa battaglia.

La famigerata Canaleta si innalza dritta sopra di me per quasi trecento metri di dislivello. Ne studio attentamente le caratteristiche, mentre mi sforzo di bere qualche sorso di acqua e sali minerali. Pur con difficoltà, riesco anche a mangiare una mezza barretta energetica, dopo averne pazientemente staccato alcuni pezzetti. Il panorama verso est e sud-est è semplicemente splendido. Cerco di riempirmi gli occhi, imprimendo nel ricordo tanta bellezza. Di fronte a un tale spettacolo sento riaffiorare pian piano tutte le forze, ma soprattutto convinzione e determinazione per portare a termine la salita. La Canaleta, al centro e a sinistra, si presenta come uno scivolo ripidissimo di pietre instabili, praticamente impossibile da percorrere se non quando è completamente ghiacciato. All’estrema destra invece, seminascosto, mi sembra di scorgere un passaggio a balze molto ripido, friabile ed in alcuni punti ghiacciato, ma dall’approccio più semplice. Dopo una ventina di minuti di pausa, raccolgo in un lungo e lento respiro tutta la concentrazione e le forze necessarie per affrontare l’ultima fatica. Quando mi rialzo il corpo vacilla per la stanchezza, ma subito dopo riparto deciso con un’altra infinita serie di piccoli passi. I muscoli si fanno improvvisamente duri e pesanti, ma continuo a salire, anche se molto lentamente, fermandomi solo di tanto in tanto e per pochissimi secondi. Più volte appoggio il piede su rocce o detriti instabili, rischiando rovinose cadute. Ad un certo punto non ho nemmeno più il coraggio di fermarmi a riposare.

Ho la strana sensazione che se mi fermassi ora, per qualsiasi ragione, non sarei più in grado di ripartire. Appena fuori dal passaggio, mi ritrovo su un terrazzino da cui si gode un panorama splendido. Dopo uno sguardo furtivo, ma pieno di emozione, riparto ancora senza sosta fino a raggiungere la cosiddetta Cresta del Guanaco, cresta di raccordo tra la vetta nord e quella sud dell’Aconcagua. La traccia passa appena sotto il filo di cresta da cui si può ammirare lo spettacolo infinitamente bello della parete sud, un grosso scivolo verticale e ghiacciato lungo quasi tre chilometri. Una sfida temibile anche per i migliori scalatori del mondo. Segue un breve traverso e infine le rocce terminali. Non più di 60-70 metri di dislivello mi separano dalla vetta. Il corpo è al limite, mentre la mente mi spinge a terminare prima che possa cedere. Gli ultimi passi sono accompagnati da una miriade di sensazioni. Senza quasi rendermene conto mi ritrovo sulla Cumbre Nord dell’Aconcagua, il tetto d’America, a 6962 metri di quota. Sono le 13 e 20 del 7 gennaio 2006. Non riesco a muovermi né a pronunciare una parola, ma lo spirito trabocca di felicità.

Per un paio di minuti mi sento come in uno stato di sospensione, dove la legge di gravità, di spazio e di tempo non trovano ragion d’essere. Finalmente posso lasciare libero il mio spirito di spiccare il volo, mentre mi invade un senso di leggerezza e di assoluta pace interiore. Davanti a me posso spaziare con lo sguardo oltre qualsiasi immaginazione. Da quassù sembra tutto infinitamente piccolo e per questo ancora più bello. Tutto appare così lontano, irraggiungibile. Per diversi minuti, rimango immobile, incapace di distogliere lo sguardo e l’attenzione dallo spettacolare panorama che mi circonda. In un attimo trascorrono venti minuti. Il vento, libero da qualsiasi barriera protettiva, ha ripreso con foga e senza tregua a colpire il mio corpo. La temperatura si aggira intorno ai – 30° C con picchi ancora più bassi quando arrivano le raffiche di vento più forti e fredde.

Distratto dall’infinita bellezza del luogo e quasi senza accorgermi, rischio un nuovo congelamento. Per qualche minuto sono costretto a frizionare le mani per riportare il sangue da dove se s’era andato. Come sempre accade in questi momenti, il tempo vola che sembra un attimo. Non vorrei assolutamente andare via, ma le condizioni climatiche e la previsione di un ritorno tutt’altro che facile mi inducono a muovere i primi passi. Non prima di respirare qualche altro momento di emozionante solitudine sul tetto d’America, in una sorta di estasi che pare eterna. Non prima di un ultimo meraviglioso sguardo a 360 gradi che non scorderò per tutto il resto della vita. Inizio a scendere percorrendo a ritroso le rocce terminali e la Cresta del Guanaco.

Le gambe tremano dalla stanchezza e mantenere l’equilibrio risulta molto difficile, soprattutto nella Canaleta, dove varie volte rischio la caduta. Alla base della Canaleta, mi concedo una breve pausa di riposo, giusto il tempo per scoprire che il vento soffia più impetuoso che mai. Ammiro ancora una volta il mondo sotto i miei piedi e poco tempo dopo, mi getto a grandi passi nel Gran Traverso, sfruttando le ghiaie che mi permettono di mantenere una buona stabilità e di avanzare con relativa velocità. Raggiunto il solitario monolite, una breve pausa fa affiorare recenti ricordi di sofferenza che scivolano leggeri e rapidi nella mente. In breve mi ritrovo sul crinale e poco dopo raggiungo Campo Independencia.

Dopo una breve pausa, riprendo a scendere a piccoli passi prestando molta attenzione ad un tratto fortemente scivoloso. Mi fermo solo quando riesco a scorgere le colorate tendine di Nido de Condores, mentre il vento continua incessantemente ad investirmi con raffiche fortissime. Riprendo a camminare, cercando di estraniarmi per non pensare alla sofferenza ed alla fatica che stanno esaurendo passo dopo passo il mio corpo. Quando arrivo davanti alla tenda, la osservo preoccupato ondeggiare pericolosamente sotto le sferzate del vento. Ne controllo rapidamente gli ancoraggi prima di distendermi dentro. In pochi secondi crollo in un sonno profondissimo, ma il sibilo del vento, continuo e sinistro, mi risveglia una quarantina di minuti più tardi. Con gli occhi sbarrati, seguo la tenda, sconquassata senza soste da tremende raffiche, spostarsi pericolosamente in tutte le direzioni.

Nonostante la stanchezza fisica e mentale e la prospettiva di altri 1200 metri di discesa con zaino pesante, in pochi attimi prendo la decisione di scendere al campo base di Plaza de Mulas. Accade tutto in una frazione di tempo, ma la decisione ormai è presa. Una mezz’ora dopo sono pronto a partire. Impossibile raccogliere le ultime energie perché sono finite da un pezzo. Il vento, man mano che scendo, perde progressivamente vigore, facendosi sempre più debole. Non ho ricordi nitidi della discesa. Forse scivolo, cadendo a terra un paio di volte, ma ho rimosso completamente la certezza di questi avvenimenti. Per andare avanti sono costretto a spegnere l’interruttore della ragione. Solo in questo modo, isolando la mente dal corpo e annullando tutte le reciproche relazioni, riesco a dimenticare la sofferenza fisica, impostando un passo dopo l’altro. Sul contrafforte finale, poco sopra il campo base, la mente sembra riprendere il controllo sull’annichilimento del corpo. Ma è solo un attimo. Un attimo sufficiente a stampare nell’anima dei ricordi un bellissimo tramonto, circondato da quelle splendide vette che per tanti giorni mi hanno fatto compagnia. Guardo distrattamente sotto di me il campo base che appare ancora così piccolo e lontano. Mi annullo nuovamente, risvegliandomi solo nel momento in cui attraverso il piccolo rio ed entro nel campo base, silenzioso e deserto.

Sta calando rapidamente la sera mentre muovo gli ultimi interminabili passi verso la tenda. Quando arrivo mi appoggio ai bastoncini per non cadere e, senza forze per chiamare, tendo l’orecchio per individuare il minimo rumore. Non sento nulla e vivo qualche momento di vero sconforto. Non mi sembra vero quando la mia compagna esce dalla tenda con un sorriso raggiante e l’aria interrogativa di chi vuole sapere subito qualcosa. Dentro sono felicissimo, ma fuori il mio corpo si rifiuta persino di abbozzare un sorriso. La mente è annebbiata e rimango per lunghi secondi impassibile senza avere nemmeno la forza di aprire la bocca. Con l’ultima stilla di forza pronuncio a fatica la fatidica parola: Cumbre!! Il bacio e l’abbraccio che seguono sono un ricordo stupendo che tengo gelosamente dentro di me.

La voglia di condividere con gli amici le emozioni di una giornata indimenticabile è più forte della più intensa stanchezza fisica che abbia mai provato. Un’ora dopo siamo in piena festa al rifugio Plaza de Mulas. La serata è rallegrata da un’alternanza di risate, chiacchiere, battute, brindisi, prospettive future, racconti e commenti riguardanti la giornata appena trascorsa. Riassaporo con gioia la bellezza di parlare e discutere di tante cose alla flebile luce delle candele, capaci così bene di esaltare i lineamenti più nascosti. L’addio finale con gli amici del rifugio scandisce brevi ma intensi momenti di tristezza e commozione. Per l’ultima volta, rivivo l’emozione di camminare in piena notte in uno spettacolare ambiente fiabesco, illuminato da una splendida luce lunare. Con animo leggero, quasi estraniato dalla realtà, attraverso i bellissimi penitentes di ghiaccio che risplendono bianchi e maestosi sotto un cielo illuminato da milioni di stelle. Mai avrei pensato che la volta celeste potesse contenerne così tante. Avanzo sempre più lentamente con l’intento di godere appieno gli ultimi istanti che mi dividono dalla fine di questa splendida giornata. Alla fine non mi rimane che cadere in un profondissimo sonno ristoratore. Non prima di un ultimo sguardo al piccolo universo Aconcagua. Non prima di un rapido riepilogo della indimenticabile ed intensissima giornata appena trascorsa, fatta di mille emozioni, dubbi, incertezze, gioie, fatiche e felicità. Non prima di un ultimo pensiero alle forze misteriose che mi hanno spinto fino in vetta. Non prima di aver ringraziato il Creatore. Chiunque esso sia.

(Vito Lamberti)