Cecità da Neve

La cheratocongiuntivite attinica o oftalmia nivalis è un problema medico estremamente frequente in montagna.
Nonostante la prima citazione della “cecità da neve” risalga già al 400 a.C. per opera di Senofonte, anche in tempi più recenti, dalla storica ascesa dei francesi al primo ottomila fino ai giorni nostri, sembra che gli alpinisti sottovalutino la protezione degli occhi dalla luce solare.
L’oftalmia delle nevi non colpisce solo i grandi alpinisti impegnati nella conquista degli ottomila himalayani ma può interessare qualsiasi alpinista impegnato sulle nevi del nostro arco alpino, così come qualsiasi sciatore che passi una giornata sugli impianti di risalita, senza un’adeguata protezione dalle radiazioni solari.
La causa dell’oftalmia delle nevi è da ricercare principalmente nell’esposizione dell’occhio alle radiazioni solari, in particolare alla componente ultravioletta (UVA e UVB), accentuata dall’azione riflettente del manto nevoso.
Gli ultravioletti sono la componente della luce solare a maggiore contenuto energetico e costituiscono un pericolo “invisibile” perché essendo posti al di là della gamma cromatica dei violetti (ultra-violetti) non sono percepiti dall’occhio umano. Gran parte della radiazione solare viene arrestata dall’atmosfera terrestre, cosicché tanto più si sale di quota tanto più la quantità di atmosfera diminuisce e tanto maggiore è la quantità di radiazioni solari che investe l’uomo.
I valori massimali vengono inoltre raggiunti quanto più il sole è alto nel cielo, come durante i mesi estivi nelle ore comprese tra le 11 e le 14 della giornata. La nebbia e le nuvole non devono trarci in inganno; le piccole particelle di acqua assorbono infatti le radiazioni infrarosse (quelle calde) ma hanno un minore effetto sulle radiazioni ultraviolette.
È in queste condizioni infatti che in montagna si tende ad allentare la protezione e ci si dimentica di usare la crema solare o gli occhiali arrivando poi alla sera in rifugio con gli occhi rossi e doloranti. Inoltre, la nebbia, le superfici d’acqua e la neve agiscono da superficie riflettente aumentando in modo significativo l’esposizione alle radiazioni ultraviolette.
Le radiazioni ultraviolette agiscono sulla cornea (la parte centrale trasparente del bulbo oculare) determinando una necrosi (cioè la morte) delle cellule che costituiscono il suo strato superficiale, con la messa a nudo dei piccoli filamenti nervosi che corrono immediatamente al di sotto di questo strato.
Queste terminazioni nervose hanno il compito di innescare una reazione di difesa quando un corpo estraneo sfiora la cornea; la loro messa a nudo determina quindi una elevatissima sensibilità della cornea a qualsiasi stimolo (anche al solo sfregamento delle palpebre) con la comparsa di dolore urente, intensa lacrimazione e fastidio alla luce (fotofobia), a cui segue uno spasmo palpebrale (chiusura delle palpebre) che, nei casi più gravi, rende impossibile la vista.
Tutto ciò è complicato dalla presenza del vento e del freddo che esaltano l’irritazione delle fibre nervose corneali, sia per azione diretta sulle stesse, sia aumentando l’evaporazione del film lacrimale protettivo.
In genere l’interessamento corneale (cheratite) è accompagnato da un’infiammazione della congiuntiva (mucosa che riveste la parte bianca del bulbo oculare e la superficie interna delle palpebre), che si manifesta con una fastidiosa sensazione di sabbia negli occhi, completando così il classico quadro della cherato-congiuntivite da radiazioni solari.
I sintomi insorgono in genere dopo 6-12 ore dall’esposizione al sole, quindi in genere la sera o la notte dopo l’escursione. Il dolore e la conseguente difficoltà nel tenere aperti gli occhi si mantengono anche durante la notte. Il danno sull’occhio non è di per sé grave in quanto l’epitelio corneale si rigenera in genere in 12-24 ore portando alla risoluzione dei sintomi.
La menomazione visiva presente durante la fase sintomatologia può essere invece grave, e può causare incidenti talvolta anche mortali.
La prevenzione si basa sull’adottare sempre degli occhiali da sole le cui lenti garantiscano un’adeguata protezione dalle radiazioni solari (leggere accuratamente il foglietto di accompagnamento dell’occhiale in cui il grado di protezione è riportato secondo una scala da 1 a 4; per l’attività su ghiacciai occorre una protezione almeno di grado 3).
A parità di capacità di assorbimento delle radiazioni UV sono migliori le lenti di colorazione più chiara, in quanto essendo più luminose limitano la dilatazione della pupilla (che normalmente si verifica con l’oscurità) determinando l’ingresso di una minor quantità di luce nell’occhio.
Devono inoltre essere dotati di protezioni laterali in modo da fermare la radiazione diffusa, il vento, e limitare l’azione del freddo. Gli occhiali devono essere indossati durante tutto il tempo passato sulla neve, dal mattino presto fino alla sera tardi e indipendentemente dalle condizioni metereologiche.
Poiché la lesione si risolve spontaneamente nell’arco di 12-24 ore la terapia consiste essenzialmente nell’attesa. Può essere utile applicare delle lacrime artificiali o delle pomate decongestionanti e/o riepitelizzanti per proteggere la superficie oculare, e nel mantenere bendato l’occhio in modo da evitare i movimenti delle palpebre. L’applicazione intermittente di ghiaccio sulle palpebre (al di sopra del bendaggio per evitare il contatto diretto con la cute) può portare del sollievo, probabilmente per la sua azione decongestionante sulla congiuntiva.
L’utilizzo di colliri antibiotici ha un significato protettivo non indispensabile, mentre sono da evitare colliri anestetici o cortisonici che, pur riducendo i sintomi, possono rallentare il processo di guarigione della cornea. Attenzione: se la sintomatologia persiste oltre le 24-48 ore sottoporsi immediatamente ad un controllo oculistico.
Infine, bisogna sottolineare che l’oftalmia da ghiacciaio è il pericolo minore conseguente alla scorretta esposizione dell’occhio alla luce solare e rappresenta un campanello d’allarme che ci indica che dobbiamo adottare dei corretti sistemi di protezione.
Ben più gravi sono infatti i rischi per la salute dell’occhio in caso di un’esposizione cronica senza un’adeguata protezione, che possono portare a gravi patologie, che danno segno di sé solo tardivamente, quando sono pienamente sviluppate, e per le quali non sempre le cure possono essere efficaci (cataratta, lesioni retiniche, tumori palpebrali).

(fonte: internet)

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