Il Rifugio Torrani può Attendere

Guardo giù ancora una volta, nel vuoto, e cerco in fondo di vedere dove finisce la nuda roccia ed inizia il ghiaione, ma senza riuscirci. Penso. Se mollo la corda vado giù… più o meno lì… o lì… ma chissà se rimarrebbe qualcosa di me… no, meglio non sbagliare, non devo mollarla. Ho affetti a casa che mi aspettano ed altre cose da fare prima di finire qui la mia esistenza.

Corda metallica verticale che porta al Passo del Tenente
Corda metallica verticale che porta al Passo del Tenente

Una volta forse non me ne sarebbe importato poi così tanto. Rischiavo e basta. Oggi non è più così, per fortuna. Ma ora basta, non ci devo nemmeno pensare.
Devo concentrarmi e riprendere la salita con la ricerca del prossimo appiglio di roccia, un buco per la punta dello scarpone… ecco. Mi aiuto afferrando la gelida corda, ma all’atto il ginocchio mi lancia fitte e ultimatum inequivocabili… non potrò durare a lungo. Continuo. Dopo tutto si tratta di concentrazione. Eppure non riesco a fare a meno di distrarmi.

Comincio a chiedermi come sono finito lì… in direzione del Passo del Tenente, sul Civetta, aggrappato ad una corda d’acciaio, all’inizio di un percorso in ascensione, così esposto da far paura e che potrebbe durare anche due ore… senza imbrago, moschettoni e cordini di sicurezza; ed uno zaino stracarico per i “contenuti extra” di attrezzatura fotografica, una delle mie grandi passioni. Nella sacca ho addirittura un treppiedi che peserà due chili, e pensare che al secondo giorno di trekking non l’ho ancora usato… che me lo porto a fare fin quassù? Mi arrabbio. Non per il peso. Per i miei amici: non devo fidarmi più, non come oggi. Dove mi stanno portando? Un dubbio mi assale: fino a dove sono amici? La prossima volta giuro voglio conoscere nei dettagli tutto il percorso. Mi sforzo di concentrarmi sulla salita.

Potrei farcela, mi dico, se solo non mi facessero così male i legamenti alle ginocchia. Stamattina appena partito non erano così doloranti… ma sono passate più di sei ore di cammino dal rifugio Vazzoler, tra cui ottocento metri di salita, un brutto ghiaione ammazzagambe in discesa e non una pausa decente per mangiare, così ora la stanchezza si fa sentire.

Arrivo a muso duro fino ad un colmo di roccia che chiude il secondo brutto tratto di salita sulla liscia parete verticale, per tirare il fiato, ma mi accorgo subito che il percorso continua con una cengia obliqua, molto più esposta e che impedisce una posizione eretta a causa di un tetto di lastre che ne schiacciano il passaggio.

Prima di affrontarla decido di far riposare le gambe e mi incastro zaino e la schiena in una fessura della roccia; in tal modo faccio passare anche altri escursionisti che intravvedo stanno scendendo lentamente, mentre attendo che il mio amico, appena dietro, mi raggiunga. Questa sarà la prima di una serie di mosse sbagliate… o forse giuste, penserò poi: essermi fermato mi causa un degrado psicologico perché la mia vista viene sempre più attratta dallo strapiombo, che ora comincia ad essere veramente impietoso. Mi preoccupo.

Un secondo errore lo faccio parlando con uno degli escursionisti che stanno scendendo con la massima attenzione; quello a cui penso di rivolgere la parola sembra un turista della domenica, non ha zaino e non è nemmeno assicurato, e ciò mi consola sulle successive difficoltà ed esposizioni, penso: se ce l’ha fatta lui… posso farcela anch’io. Quando è a un metro da me, gli rivolgo una domanda, ma appena risponde mi devasta: mi dice che sono appena all’inizio e che poi il sentiero sarà ancora peggiore. Mentre sono ancora titubante, il colpo di grazia me lo infligge uno di due giovani ragazzi belgi che scendono subito dopo – un nuovo amico di nome Xavier, già intuisco – con cui la sera stessa avremmo anche cenato al rifugio Coldai. Questi altri due ragazzi stavolta hanno imbrago e moschettoni, come si confà nell’affrontare simili situazioni. Xavier come mi vede mi domanda “come mai non sono assicurato”… è finita. Cade anche l’ultimo paletto di sicurezza personale. Il mio limite è questo, ho deciso. Sfiduciato, infreddolito e senza forze mi aggrappo all’unica soluzione possibile e rimasta per rimanere vivo: raccogliere – se mai ce ne fossero ancora – le poche energie rimaste e ridiscendere; dopo tutto – mi rassicuro – ho ancora parecchie ore di luce per farlo e raggiungere il rifugio Coldai.

Ma dovrà passare un’altra mezz’ora prima di convincere il mio amico e compagno che non mi è possibile proseguire. La discesa è piena di sollievo, per quanto non meno dura della salita e forse anche più pericolosa poiché è più problematico vedere dove si mettono gli scarponi. L’idea di non dover più raggiungere il rifugio Torrani mi concede nuova linfa vitale e, alla fine, raggiungo il ghiaione con il fiato grosso dall’estremo sforzo e dai dolori alle ginocchia. Da qui al Rifugio Coldai avremmo poi camminato facilmente per altre due o tre ore, non ricordo, ma con rinnovata serenità.

Ecco. Questo è il racconto di un fallimento: la mancata ascesa al Rifugio Torrani, quasi sulla cima del Gruppo del Civetta, a 3000 metri. Questo però è anche il racconto di un successo: lo scampato pericolo causato dall’impreparazione, dalla sprovvedutezza e da un po’ di leggerezza.

Decidete voi di che cosa parla di più questa piccola storia.
Massimo

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