Padolada – da Sappada a Padola attraverso creste e confini, tra prati e cielo

“Ehi! Ehiiii!!! Svegliati dai che sono le 6 meno 10…” Ma cos’ha mia mamma da rompere adesso, si sta così bene a letto… “Dai, tirati su! Ma a che ora ti vengono a prendere?…”  Sì… zzzzzzzzz… mi vengono a prend… zzzzzzz…  mi vengono a prendere?! Ma per andare dove?!? Poi realizzo. Mi alzo di scatto come un velocista sui blocchi di partenza! Mamma, sono già le 5.55, dovevo alzarmi mezzora fa! Tiro subito un sospiro di sollievo quando ricordo che questo è il primo anno che ho tutta la roba pronta dalla sera prima e dopo soli venticinque minuti mi ritrovo catapultato sul treno diretto a Calalzo. A Conegliano saliamo in tre, Bubu Sherman e Buso, il resto della comitiva si aggregherà alla stazione di Vittorio Veneto. Le ruote del convoglio stridono sotto la morsa dei freni e dalla porta ecco sbucare finalmente i vari Robi, Marica, Lella, Dario, Giomo, Albe, Lele, Franchino, Gabri, Stefano, Giulia e Manuele.

Per chi non ricordasse l’articolo dell’anno scorso, quello che facciamo ogni estate ormai da sei anni non è solo un semplice trekking di una settimana. E’ piuttosto un “carrozzone” itinerante, carico di storie, di esperienze, di amicizie… è un continuo susseguirsi di emozioni, condivisioni, immense gioie ed estenuanti fatiche, il tutto condito di quel sale che solo la montagna sa offrire. I partecipanti sono i più svariati, tutti molto diversi l’uno dall’altro, ci sono i frequentatori abituali della montagna e ci sono i neofiti, ci sono i “cittadini” e i “campagnoli”, ci sono gli irriducibili e quelli che salgono una volta soltanto su questo carrozzone, per poi scomparire o riapparire quasi per magia qualche anno dopo. L’unica cosa sicura è che si parte tutti assieme e che tutti assieme dovremo faticare e divertirci, divertirci e faticare, il resto poi verrà da sé.

Quest’anno il percorso ci porterà da Sappada a Padola, tragitto inverso e diverso rispetto a quello della prima edizione del 2004. La scelta di tornare a collegare nuovamente queste due splendide località non è stata dettata dal caso: Robi il padre fondatore di quest’avventura, ha voluto rendere omaggio così al ricordo di Don Antonio Rosolen e ai 40 anni del suo Campeggio. In questi luoghi infatti la parrocchia di San Martino di Colle Umberto (alla quale si è aggiunta negli ultimi anni quella di Revine Lago), ha visto nascere e crescere questo sogno estivo che vede tuttora impegnati nell’animazione gran parte dei partecipanti a questo trekking.

Primo giorno – In treno già si respira aria di festa, le facce sono distese, le porte automatiche si chiudono. Sono le 6.43 del 17 agosto 2009, si parte. “Padolada” è cominciata! Giunti a Calalzo attendiamo pazientemente il bus che ci porterà fino a Cima Sappada sostando presso il bar della stazione e alleggerendo Robi di uno dei pesi che porta sempre per noi all’interno del suo zaino stile Mary Poppins: una gustosa torta fatta in casa sparisce in men che non si dica tra le fauci agguerrite di noi “Padoleri”. Un simpatico pulmino prende poi il posto della corriera e con due viaggi, in meno di mezzora, ci trasporta tutti fino a Baita del Rododendro dove avranno inizio le vere fatiche.

Sotto un sole che spacca le pietre cominciamo a inerpicarci per il ripido sentiero che conduce ai Laghi d’Olbe. Approfittiamo di qualche cascatella lungo il percorso per rinfrescarci, Lella ripete insistentemente che vorrebbe dell’anguria, forse siamo partiti un po’ troppo forte! Ai laghi optiamo quindi per una sosta pranzo anticipata, qualcuno ha veramente bisogno di riposare. Alcuni di noi avevano intenzione di fare un bagno rinfrescante ma delle simpatiche vacche ci anticipano proprio sul più bello invitandoci ad affidare il nostro battesimo per immersione ad un altro specchio d’acqua. Diamo da mangiare anche ai voracissimi e numerosissimi pescetti che invadono le vicinanze della riva e infine ci decidiamo a ripartire alla volta del Passo del Mulo.

La salita è ripida e il sentiero sale zigzagando; la comitiva si sfilaccia, si divide in piccoli gruppetti, ognuno col suo ritmo, ma in cima ci si aspetta tutti. Avanzare compatto per un gruppo così numeroso non è per nulla facile, e con gli anni questa si è rivelata la strategia migliore, è bello poi notare come i gruppetti che si formano siano sempre diversi, con questo sistema non si finisce affatto per dividersi, anzi, ci si conosce meglio interagendo con pochi e cambiando spesso. Alla fine si finisce per amalgamarsi meglio tutti e anche al termine di questi sei giorni sono sicuro che saremo molto più uniti di quando siamo partiti.

Dopo aver ammirato e fotografato per bene il fantastico panorama del Peralba e della Cresta Carnica, si comincia la discesa ed anche qui è bello notare la differenza degli stili: il ripidissimo ghiaione che ricopre il versante nord vede alcuni di noi scendere in picchiata mentre altri preferiscono mettere lentamente un piede davanti all’altro come se camminassero sulle uova. Ci si aspetta nuovamente, si riparte e ci si separa di nuovo fino a giungere dapprima nei pressi delle sorgenti del Piave e poi, con gran tirata finale, al Rif. Calvi che ci ospiterà la prima notte. Qui i più temerari però hanno ancora una cartuccia da sparare. C’è la vetta del Peralba da conquistare in memoria dei campeggiatori che tante volte l’hanno salito. Robi convince gli amici gestori a ritardare l’orario di cena per tutti e, con il sottoscritto, Buso, Sherman, Albe, Manuele, Gabri e una sorprendente Lella, partiamo per andare a gustarci il tramonto a quasi 2700m di quota. Gabri desiste quasi subito sopraffatto dai crampi, ma noi ce la facciamo. E’ proprio una toccata e fuga ma ne vale assolutamente la pena, in più abbiamo ricevuto dai gestori l’onore di sostituire il vecchio libro di vetta con quello nuovo e portiamo orgogliosamente a termine la missione. Quando rientriamo al rifugio è buio pesto e le torce che ci siamo prudentemente portati appresso ci guidano sino all’ingresso. Una cena strepitosa e abbondantissima conclude la giornata.

Secondo giorno – La sveglia suona presto, inizia una lunga giornata: quest’anno come di consueto, abbiamo studiato il percorso (io sono uno degli incaricati) in modo da faticare parecchio i primi giorni per poi riposarci nella parte finale. Oggi si entra nel clou di questo particolare meccanismo visto che dal Calvi dobbiamo arrivare fino all’austriaco Porze Hütte. Da mesi il dibattito fra noi tecnici dell’itinerario è il seguente: procediamo sopra la Cresta Carnica sul “panoramicissimo” sentiero 172 oppure optiamo per la più comoda e bassa Strada delle Malghe? Abbiamo fatto anche un paio di ricognizioni per cercare di capire l’entità delle forze in gioco, ma hanno portato solo ulteriore confusione: fatto sta che lasciamo il Calvi senza ancora aver deciso.

Alcuni di noi, lungo la breve salita al Passo dell’Oregone realizzano di essere ancora stanchi dal giorno prima e per di più Marica non sta per niente bene. Al momento del bivio proseguiamo perciò tutti per la strada delle malghe, anche se tra gli arditi del gruppo si vocifera della possibilità di riallacciarsi più avanti al mitico sentiero in cresta. Si procede piano, con innumerevoli pause che rompono il ritmo e danno l’impressione di non andare più avanti. La svolta arriva a Casera Antola di Sopra, dove la sosta di rito si prolunga oltre il solito: il gruppo si divide in due parti, uno affronterà la Cresta Carnica e l’altro proseguirà per il Sentiero delle Malghe. Ritrovo per tutti al Porze Hütte, ma radio sempre accese per tenerci in contatto. Faccio parte del gruppo degli arditi, perciò saluto tutti gli altri che sorseggiano il buon te caldo della casera e riprendo il cammino. Per un’oretta buona proseguiamo in quota parallelamente alle creste e finalmente troviamo il segno bianco-rosso con chiara indicazione di svolta a destra per la Cresta Carnica. Lì il sentiero svanisce e iniziamo a percorrere un lunghissimo pendio prativo che sale, sale, sale fino ad una croce lassù, piccola piccola… erba alta, niente tracce, niente bolli o sentieri segnati… ognuno per la sua strada, a “scaveza-camp”. Per fortuna non ci sono pericoli, solo marmotte in quantità che corrono su e giù nascoste fra l’erba altissima infastidite probabilmente dal nostro passaggio. Arrivo per primo in forcella e mi accorgo che quella che avevamo ipotizzato essere una croce è in realtà un semplice palo di legno, poco male, dietro si apre un panorama fantastico… ora anche l’occhio può prendere fiato e sconfinare oltre le cime più lontane, da una parte Italia e dall’altra l’Austria: ragazzi, siamo proprio a cavallo!

Dopo una sosta spuntino ripartiamo e ci gustiamo a pieno questa bellissima traversata, su e giù, tra prati verdissimi e cielo. Ogni tanto le nostre modeste radio riescono a metterci in contatto con gli altri e a un certo punto li abbiamo anche a contatto visivo. Ci spiegano che il loro itinerario è risultato essere ancor più facile del previsto e che si stanno fermando a far festa in ogni malga. In una hanno addirittura trovato dei simpatici signori che hanno allestito una sorta di “balera”. Noi invece ci rendiamo conto che stiamo facendo tanto dislivello perché il profilo di cresta è tutt’altro che pianeggiante, ma siamo contenti della nostra fatica aggiuntiva e ci prefiggiamo l’obbiettivo di arrivare prima dei “filo-malgari”. Ridiscendiamo infine fino a Forcella Dignas e subito dietro troviamo il rifugio austriaco Porze aspettando una buona mezzora prima che l’altra squadra ci raggiunga. Siamo arrivati primi!

Il Porze è un rifugio bellissimo ma con gli “hütte” e coi gestori austriaci noi Padoleri non abbiamo mai avuto grande feeling, per carità i ragazzi che ci hanno accolto sono impeccabili, ma il loro temperamento rigido poco si amalgama col nostro spirito goliardico e quindi veniamo un po’ frenati sia sul piano alimentare sia su quello canoro. Per fortuna ciascun gruppo ha da raccontare all’altro un sacco di aneddoti e trascorriamo comunque una piacevole serata.

Terzo giorno – Con Albe, Buso, Gabri e Sherman lascio prima degli altri il rifugio: per noi padoleri d’alta quota oggi altra “giornatona”: in programma l’ascesa al monte Porze-Palombino (perché austriaci e italiani non riescono mai ad accordarsi per dare un nome unico alle cose?) e il sentiero attrezzato C. D’Ambros per ricongiungerci infine con il resto della compagnia al Filmoor Hütte. Gli altri partiranno più tardi  e raggiungeranno questo curioso rifugio percorrendo il comodo sentiero 403. Risalita forcella Dignas proseguiamo il nostro viaggio sulla Cresta Carnica da dove lo avevamo interrotto. La cosa assurda è che questo tratto di sentiero lo abbiamo percorso in tre di noi già la settimana scorsa, era in sostanza una delle “ricognizioni” che avevamo effettuato io Albe e Sherman, ma non ci pesa affatto ripeterlo, anzi… infiliamo gli imbraghi (che dovrebbero non servire, ma non si sa mai) e iniziamo a inerpicarci su questo maestoso zoccolo roccioso. La salita non è impegnativa e i panorami sono davvero impagabili. Dopo un ultimo tratto facile, arriviamo in cima e ci sediamo a sgranocchiare qualcosa sotto la maestosa croce di vetta. La pausa è breve, ripartiamo subito perché sappiamo che la strada è ancora tanta. Effettuiamo la discesa su un altro tratto attrezzato che questa volta non conosciamo e dopo un incontro ravvicinato con un simpatico gregge raggiungiamo l’inizio della ferrata D’Ambros.

Questo itinerario che attraversa tutta la Cresta della Pitturina collegando Cima Vallona al Monte Cavallino non è altro che un vecchio percorso di guerra pieno di gallerie, trincee e resti bellici. Il sentiero è molto “aereo” e in alcuni punti ben esposto, il buon Albe lamenta il fatto che ci sono tratti dove la corda metallica è usata a sproposito, mentre in altri dove servirebbe non c’è nemmeno l’ombra di un chiodo. Procediamo lentamente gustandoci questo bellissimo scorcio di montagna, riusciamo anche a comunicare via radio: gli altri ci stanno osservando dal Filmoor dove sono giunti già da un bel po’. Una volta ricongiunti scopriamo questo fantastico rifugio che si discosta non poco dagli altri Hütte incontrati fino ad ora. Il gestore, il signor Günter è proprio un personaggio, viene da Vienna e si presenta con capelli lunghi, gilet in pelle marrone, zoccoli di legno, è cordialissimo e nella fontanella appena fuori dal rifugio tiene in fresca un centinaio di lattine di bibite che fanno proprio gola. Anche la cornice attorno, con il Cavallino a dominare la scena, è davvero spettacolare. Ci fermiamo un pezzo e recuperiamo tutto quello che non siamo riusciti a ingerire la sera prima.

Ripartire è dura ma è necessario se vogliamo arrivare prima del buio. Il lungo sentiero 146 ci accompagna di nuovo fra verdissimi prati, marmotte e vacche al pascolo. Davanti a noi vediamo avvicinarsi sempre di più il Col Quaternà, altro obbiettivo della Padolada. Robi è deciso a conquistarne la cima perché l’ultima volta l’aveva salita da bambino quando era campeggiatore e oltretutto perché era in programma anche alla Sappadola, ma avevamo dovuto rinunciarvi a causa del forte ritardo in cui ci trovavamo quel giorno. Saliamo quasi tutti, in fondo si tratta di una deviazione di poco più di un centinaio di metri. In cima festeggiamo, ma ricordiamo anche in silenzio tutto ciò che questo colle ha rappresentato nei lontani tempi di guerra. E’ veramente un momento significativo. Ma è tardi, dobbiamo affrettarci e scendere giù fino a Casera Rinfreddo. Il gruppo di gestori ci accoglie a braccia aperte. E’ un vero agriturismo più che un rifugio: acqua calda, cena ottima, possibilità di cantare fino a tardi e di far festa. Poi tutti in branda, le tappe più impegnative son finite e domani è un altro giorno!

Quarto giorno – Mi alzo con un pensiero fisso, oggi Maki si aggregherà alla comitiva. Ho proprio voglia di vederla e di condividere con lei tutto questo. Quella odierna è la giornata più facile, poche ore di cammino e dislivello relativo, possiamo proprio prendercela con calma. Colazione abbondante, foto di rito con i gestori e partenza blanda, in discesa, verso il Passo Monte Croce di Comelico, unico incontro del nostro viaggio con il mondo civilizzato.

Il serpentone d’asfalto e il parcheggio a pagamento stracolmo e gestito dai cinesi ci ricordano brutalmente la dimensione reale del mondo in cui normalmente viviamo. Credo di parlare a nome di tutti quando dico di essere ben felice di avere davanti ancora altri tre giorni di montagna… Per fortuna una folta chioma di lunghi capelli biondi e due occhioni azzurro cielo distolgono il mio sguardo dalle roboanti moto che percorrono la statale 52. Ora c’è anche Maki. Penso tra me e me che di più proprio non potrei chiedere. Ma ecco che la comitiva che è venuta a trovarci (fatta di genitori e amici) estrae dal baule dell’auto una quantità indefinita di panini con formaggio e affettati… Vado in visibilio, sono quasi commosso, nulla sembra poter rovinare tutto questo quand’ecco che, al termine del banchetto, giunge una triste sorpresa: Manu ci abbandona. Prima di partire con noi ha affrontato una estenuante settimana di trekking in solitaria in Valle d’Aosta ed è tornato con un ginocchio infiammato; il riposo di qualche giorno sembrava aver risolto tutto ma la ripartenza dopo troppo poco tempo non è stata affatto gradita dall’articolazione incriminata. Il risultato è che il nostro amico zoppica da due giorni e preferisce non rischiare di peggiorare la situazione. Se ne torna a casa. A malincuore lo salutiamo con la promessa di ritrovaci tutti assieme al nostro ritorno e riprendiamo la via per il Rifugio Berti, riparo delle nostre prossime due notti.

Saliamo senza fretta dividendoci e aspettandoci più volte come nostra abitudine. Da Pian de la Biscia proseguiamo poi a ranghi compatti. L’atmosfera è tornata allegra, Buso, fino ad ora spento, si riaccende come di colpo e comincia a tenere banco facendo il pagliaccio. Lo fa per tutto il tempo, non riusciamo più a spegnerlo, canta, urla, scherza, ride, organizza persino un “percorso salute” improvvisato e alcuni di noi ci cimentiamo nelle più svariate e assurde discipline che esso propone. A questa simpatica baraonda prende parte un numero sempre crescente di Padoleri. Quando poi, intorno alle 14.00, arriviamo sul terrazzo del rifugio, che è stracolmo di gente, attiriamo subito l’attenzione di tutti. Inizialmente sono preso dal timore di poter recare fastidio: di solito chi ama la montagna vuole fuggire dalla confusione (e noi di confusione ne facciamo parecchia), ma subito alcune battute della famiglia di romani che ci siedono accanto fanno miseramente cadere questo mio sentore. La festa continua, si ordina da bere, da mangiare… solo l’intervento di Bruno, il gestore, ad un certo punto riesce a fermarci.

La giornata però è ancora lunga, siamo abituati a camminare fino a sera e ad arrivare stanchi, mentre oggi abbiamo camminato poco e siamo arrivati presto. Siamo carichi come molle, ma che fare? Buso, che deve ancora sfogare le sue energie pressoché illimitate, si porta sul pendio che affianca il rifugio a comporre con i sassi il suo nome per inserirlo fra i mille altri che riempiono il prato. Noi che non siamo da meno ci organizziamo e andiamo a comporre la scritta “PADOLADA”: una squadra di quattro “portatori” e di due tecnici, coadiuvata da innumerevoli supervisori a distanza, pronti a impartire ordini via radio dal rifugio, realizza in un paio d’ore la scritta di sassi bianchi più bella, grande e visibile che il Berti ricordi. Ora siamo soddisfatti. Possiamo attendere con calma la cena e trascorrere una serata tranquilla all’insegna dello yogurt con i mirtilli.

Quinto giorno – Stamattina siamo cinque in più: dal Rifugio Lunelli sono saliti Fede e l’allegra famigliola Sommariva composta da Stefano, Giusy, Marta e Anna. Fino a domani saranno dei nostri e oggi ci accompagneranno fino al Passo Sentinella che è un’altra storica meta dei campeggiatori di Don Antonio Rosolen. Questa tappa andata-ritorno l’abbiamo spudoratamente copiata dal secondo giorno della Sappadola, ma è talmente bella e i panorami sono talmente suggestivi che non abbiamo potuto assolutamente tralasciarla. Il meteo inoltre ci sorride come e più di sempre: Bruno il gestore sostiene addirittura di non avere ricordo di esser mai uscito dal Berti e aver trovato i 14°C che segnava il termometro stamattina alle 7. In effetti fa caldo, insolitamente caldo e i nostri amici giunti dalla pianura confermano che “giù” il clima è davvero invivibile; penso che siamo proprio dei privilegiati a fare le ferie quassù a 2000m… Dato che stasera faremo ritorno qui, prepariamo lo zaino inserendo solo lo stretto indispensabile e noi “ferratisti” aggiungiamo anche l’imbrago e il caschetto: oggi per noi è in programma anche la Ferrata Zandonella alla Croda Rossa. Si parte.

Il primo segmento di sentiero sale ondulato su di un piccolo promontorio che nasconde il timido Laghetto di Popera, lì al ritorno è assolutamente in programma il bagno di rito, anche perché siamo in attesa di farlo ancora dai Laghi d’Olbe. Poi ecco il lunghissimo ghiaione che porta fino al Passo della Sentinella, lo risaliamo lentamente e con numerose pause; questa volta arrivo su quasi per ultimo, la fretta è il mio ultimo pensiero. Una volta in cima il ricordo torna indietro sino al 2004, ripenso a quando questa compagnia di splendide persone l’avevo vista per la prima volta soltanto il giorno prima: mi sentivo già perfettamente a mio agio… Quante ne son successe da allora, quante storie, quante avventure, quanta vita… All’improvviso una mini-fetta di anguria compare davanti ai miei occhi e mi ridesta di soprassalto. Anguria? Guardo Lella che soddisfatta addenta la sua fettina di succoso frutto rosso… Certo, anguria! L’aveva detto Fede che aveva un’anguria nello zaino, noi ovviamente non gli avevamo minimamente creduto, ma chi poteva immaginare che ne tenesse nascosta una di 15 centimetri di diametro?  La addento di gusto: buona! Piccola sì, ma proprio buona!

La sosta dei padoleri si prolunga molto e ad un certo punto, con Buso, Albe e Giomo salutiamo il resto del plotone per dirigerci alla volta della Zandonella. Giunti rapidamente all’attacco indossiamo gli imbraghi e partiamo. La ferrata ripercorre anch’essa una via che i soldati utilizzavano in guerra, lungo il percorso troviamo una quantità indefinita di tracce lasciate dall’uomo: fili spinati, opere in muratura, scale di legno, tutto lasciato lì, a perenne ricordo di quello che fu. La salita non è impegnativa ma è varia e divertente, arriviamo in cima soddisfatti, ci godiamo il panorama e una tavoletta di cioccolata bianca, poi un nuvolone ci invita a prendere velocemente la via del ritorno sul secondo troncone della ferrata. Ripassiamo per il Laghetto di Popera dove ad aspettarci sono rimasti in pochi. Tra i componenti dello sparuto gruppetto di sostenitori spuntano anche Jan e Nadia. Che bravi, sono riusciti a venire a trovarci anche loro!

Come da programma facciamo il bagno (l’acqua è davvero gelida!) e rientriamo al rifugio dove tutti gli altri stanno già facendo cagnara da un bel po’ ridendo e scherzando con i gestori; spunta addirittura (e chissà da dove) un’altra anguria, questa volta enorme. La serata si conclude alla grande, come al solito del resto, ma stavolta il sentimento che ci accompagna mentre saliamo in camerata è quello della malinconia: già, proprio così, domani si torna a casa.

Sesto giorno – come tutti i sogni anche questo ha una fine, non sono affatto triste però: sono felice di tornare a casa e riprendere tutte le mie attività, sento di avere le batterie nuovamente cariche. Ho voglia di fare! Solo dispiace un po’ lasciarsi alle spalle tutto. Prepariamo gli zainoni (tornati gonfi) fuori dal rifugio, allestiamo una divertente cerimonia di addio con i gestori con cui ormai abbiamo stretto un bellissimo legame e ripartiamo sotto un cielo minaccioso con destinazione Padola. Le previsioni per oggi non sono delle migliori, ma il programma prevede ancora un ultimo tributo al Campeggio: Bivacco Piovan. Non ci arriviamo tutti, molti sono stanchi e ci aspettano sul pianoro del Cadin dei Bagni. Da qui scendiamo tutti per il ripido sentiero 123 fino a ricongiungerci col 164-151 che dal Rif. Lunelli porta fino a Padola. La pioggia poi comincia a ticchettare sulle foglie degli alberi, leggera e incessante. I simpatici ponci colorati che fanno capolino sopra le nostre teste contrastano non poco con l’atmosfera grigia della giornata. Penso tra me e me che, proprio come l’anno scorso, il cielo stia piangendo perché lasciamo le montagne. La mulattiera che a un certo punto prende il posto del sentiero sembra non finire mai. Don Angelo ci avrebbe dovuto aspettare al Laghetto di Campo per la S.ta Messa, ma il nostro consueto ritardo sulla tabella di marcia e le condizioni meteo avverse ci fanno optare per rinviare tutto alla chiesa di Padola.

La strada si allarga sempre di più, diventa asfaltata. Ai lati ecco comparire le prime case e, in fondo, Padola. Quando arriviamo nella piazza centrale del paese smette improvvisamente di piovere e in cinque minuti spunta un sole inaspettato che riscalda l’anima e il cuore. Siamo in forte ritardo e il Don, che ha inderogabili impegni successivi, deve ridurre la messa ad un momento di preghiera e riflessione. Dice proprio delle belle cose su Don Antonio, sul campeggio e sulle montagne. Poi ci saluta e ci lascia alle prese con i pasticcini che i genitori di Albe hanno portato fin qui per il suo compleanno. Proprio Albe è il primo a salutarci, torna a casa in auto mentre noi saliamo in corriera. Mi dispiace un po’ che ci abbandoni prima, avrei preferito piuttosto salutarlo a Vittorio, assieme a tutti gli altri: in effetti vorrei utopicamente rimandare a più tardi possibile il momento della conclusione e mi piacerebbe proprio che ci potessero essere tutti. La corriera ci lascia a Calalzo dove dobbiamo aspettare per due ore il treno. Robi è nervoso, non è abituato a “far niente”, gli sembra improduttivo, d’altra parte è un vulcano sempre in movimento tra iniziative, animazioni, attività, è veramente un leader straordinario, ma non riesce proprio a prendersi una pausa da tutto. Non è nel suo DNA, c’è poco da fare. Io invece mi gusto il momento: utilizzo queste due ore per ridere e scherzare con gli altri ma anche per riflettere.

Il piccolo convoglio alla fine arriva, si va. Il trenino a gasolio percorre stancamente le valli sotto una nuova pioggia e ci riconsegna alla pianura. Il “carrozzone” scarica buona parte dei suoi artisti a Vittorio e lascia Bubu, Sherman e Buso a proseguire ancora per un po’. L’anno prima eravamo in quattro a scendere a Conegliano ed è proprio Denis, “l’assente” di questa edizione, a passarci a prendere in stazione. Dopo Sappadola, Zoppada, Cuoralba, Monvisontour e Slavazzuoi, anche Padolada è giunta al termine, rinascerà l’anno prossimo, con un nuovo itinerario, con nuove aspettative, con nuove idee e nuovo entusiasmo, ma soprattutto con un nuovo nome. Perché ogni avventura è diversa dall’altra così come in fondo lo è anche ogni sorriso di un gruppo di amici che amano la montagna.

Bubu (Luca) Padolero

Un pensiero su “Padolada – da Sappada a Padola attraverso creste e confini, tra prati e cielo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.