Per i Rifugi del Brenta tra Dune di Ghiaia e Scogliere di Roccia

E’ fatta: la riunione ha concepito, si va quattro giorni sulle Dolomiti di Brenta. Scocca l’ora X, e i “Bortolot” son pronti a partire. Un intoppo (chiamiamolo così!?) dell’ultima ora, Marcello il giovedì sera è a Verona per l’AIDA (sich!, beato lui), ci fa rinviare di un giorno la partenza. Naturalmente l’AIDA sarà un tormentone che lo accompagnerà con un senso di colpa per tutta la vita, ma pretesto per far valere il valore dell’amicizia nel rinviare la partenza per essere tutti assieme.

Ho il sonno agitato, zaino, cambi, scarponi, vivande, penso a non dimenticare niente; sembra strano ma ogni volta che mi accingo a partire per i monti è la stessa emozione, Pizzoc piuttosto che Antelao, ma sempre agitazione che scuote l’anima di aspettative il più delle volte ben riposte, camminare sui sentieri in quota per evadere dallo stress mentale della quotidianità, per ricaricare le motivazioni, per vivere in simbiosi con la natura, per cementare le amicizie, molte volte semplicemente per divertirsi.

La notte passa veloce, sono le 5 e la mitica Tipo (detta Punto) di Marcello è già sotto casa mia a Revine pronta a sbuffare per i tornanti che l’attendono.

Sosta a Serravalle per caricare Franco e Massimo e via, carichi più che mai, alla volta del Trentino.

Le strade deserte di un venerdì di fine agosto ci conducono a Feltre e qui colazione e sbadigli s’intrecciano. Intanto la giornata si preannuncia piovosa, le previsioni non danno scampo. Arriviamo a Molveno sotto un cielo plumbeo. Indossiamo la maglietta dei Bortolot (regalo graditissimo di Marcello), cappello giallo “Raggio di Sole” immancabile in testa e saliamo in ovovia fino al Rifugio “La Montanara”.

Ci inoltriamo nel bosco per facile sentiero, ma ben presto fiuto e cartina ci correggono il percorso e nel volgere di breve tempo rientriamo sull’itinerario esatto e costeggiando alti dirupi arriviamo al Rifugio “Croz dell’Altissimo”, prima sosta forzata per la pioggia che al momento riusciamo ad evitare. Ci divertiamo ironicamente all’arrivo bagnatissimo di una coppia di Padova con la quale entriamo subito in dialogo parlando del Cansiglio (più avanti rideranno loro di noi bagnati!).

Riprendiamo il cammino e superando un breve dislivello, imprecando non poco per la pioggerella che va e viene e ci costringe a indossare e togliere continuamente giacche a vento e teli, giungiamo al Rifugio della “Selvata”, altra breve tappa per il timbro sul camminamonti e accodati a un gruppo numeroso di Padova continuiamo la salita confidando nella tenuta del tempo. Il nostro obiettivo è il Rifugio “Alimonta” ma già valutiamo ritirate strategiche al “Brentei” in caso di pioggia.

Sorpassando la colonna padovana che ci precede conosciamo Paolo, il capogruppo, un omone di mezza età coi baffi che ci è subito simpatico, loquacissimo e generoso di domande e indicazioni (e noi naturalmente stiamo al gioco e le battute si sprecano). Un raggio di sole illusorio ci permette di pranzare (barrette energetiche, sich!). La salita continua e s’intravede il Rifugio “Tosa-Pedrotti” in cima a uno sperone roccioso. Proprio mentre cantavamo vittoria per il tempo, a mezz’ora dal rifugio, giove pluvio ha deciso di regalarci una colossale lavata (di capo e… di piedi) facendo convergere le nubi più nere, tuoni, fulmini, pioggia, vento, nebbia e grandine proprio mentre superavamo lo sperone roccioso.

Con le imprecazioni al grido di “chi me l’ha fatto fare” e “tre mesi de séch, dovéo piòver proprio dès ?!” con non poco impegno e tensione temporalesca giungiamo fradici al Rifugio ‘Tosa”.

Nel frattempo, il mio poncio già “ferito” più volte s’è definitivamente strappato in più parti a causa di un refolo di vento, tanto da diventare inservibile. E’ pomeriggio, ma sembra notte e da vari sentieri sbucano figure con facce più o meno stravolte che cercano il riparo al caldo del rifugio. All’interno una macedonia indescrivibile; di vestiario gocciolante appeso un po’ dappertutto e gente che si cambia; di umidità e tè bollenti; di linguaggi e di umanità. Una babele di oggetti e persone accomunati dalla passione per la montagna; c’è chi gestisce e in quota ci vive e racconta di lavoro, di storie e di uomini e c’è chi cammina e la montagna la vive da escursionista e sulla montagna conosce, fantastica, riposa, fatica… In quel momento il rifugio è veramente un cuore che pulsa e rifugia e al caldo della nostra camera ci distendiamo.

Certo che come impatto le Dolomiti d’occidente si sono nascoste tra le nuvole e mantengono in serbo il loro profilo per momenti migliori. Ma noi ammiriamo le crode anche così, scure di un grigio lineare e brillanti dell’acqua tanto agognata sulle piane. Il ticchettio della pioggia sulle tettoie è rasserenante e ciarliero. Dobbiamo cambiare tutto il programma, si deve dormire al “Tosa” forzatamente e intanto il tempo continua il suo sfogo estivo. Cartoline, carte da gioco, diari di viaggio, mappa, tutto serve a tirare ora di cena, che “spazzoliamo” come fossimo digiuni da tempo. Intanto è il momento di parlare tra di noi, discorsi che durante l’anno non si riescono ad intavolare per gli impegni dell’uno o dell’altro, discorsi d’amicizie, di donne, di famiglia, di lavoro, siamo accesi di voci tonanti e tra cappelli e maglie non passiamo inosservati, anzi ci sentiamo osservati, poco importa, per noi l’amicizia è riuscire a dire ciò che abbiamo dentro e c’è chi parla, c’è chi ascolta, chi consiglia. L’armonia della sala stube si surriscalda di conoscenze, di presentazioni, ogni scusa è buona, un maglione da spostare, un dolore da massaggiare, una foto da scattare, un filmato da girare, un conto da pagare, un piatto da raccogliere, una grappa da bere.

Dai discorsi impegnati al divertimento cantato il Alla Bocca di Brenta tra passo è breve, la sala si ritrova di colpo riunita nell’aggregazione più antica del mondo, nel canto. E col canto arriva il gioco, la battuta, la canzone giapponese piuttosto che trentina o africana, la canzone del Piave e di colpo siamo tutti col bicchiere in mano e una grappa tira l’altra e perfino i bans diventano un successo dell’estate. Tra un San Giulian e un Von Trier la notte si avvicina e il riposo del guerriero/cantante/alpinista/escursionista diviene essenziale per un nuovo giorno tra le pietre del Brenta. Baldoria sì e potente, ma riposo e sicurezza in montagna sono due ingredienti indispensabili per poterla apprezzare appieno.

Dopo il diluvio universale, un’alba meravigliosa ci attende il giorno seguenteda togliere il respiro e gli occhi la immortalano e la conservano. Finalmente le rocce si contornano di tutta la loro bellezza. Sorridiamo divertiti alla “rapina” subita da Franco, gli hanno rubato i calzettoni di lana messi ad asciugare e una borsa di plastica, forse qualcuno dopo averli annusatisi pentirà del gesto in usuale in un rifugio!

Senza calzini e senza poncho, ma carichi del nostro entusiasmo, dopo aver salutato gli amici d’avventura e i gestori (a dire il vero un po’ “freddini”, forse per la quantità di persone presenti, mah!), riprendiamo il nostro percorso addentrandoci verso la bocca di Brenta, direzione Rifugio “Brentei”.

Torrioni e colatoi, guglie e cenge sembra sorridano al nostro passaggio, scenari di straordinaria bellezza confermano di meritare la popolarità della quale godono queste montagne care al Bruno De Tassis (emerita guida alpina e pioniere dell’alpinismo, ultranovantenne, che ancora le percorre).

Giungiamo senza particolari difficoltà al Rifugio “Brentei”; al suo interno si respira veramente l’aria dell’alpinismo, delle salite al Crozzon, alla Tosa, al Campanil, delle Bocchette, le pareti di legno sono tappezzate dalle foto di tanti alpinisti, di tante pareti, di cimeli, riviviamo i momenti in bianco e nero e i brividi salgono sulla pelle.

Ci riprendiamo dall’emozione e continuiamo il nostro viaggio. Avendo dovuto cambiare tutto il programma causa il tempo, dobbiamo trovare da dormire in qualche rifugio e l’impresa non è delle più semplici, visto che è l’ultimo sabato di agosto. Tra sentieri ben segnati e mughi arriviamo al Rifugio “Tuckett” e qui lo scenario che ci si pone davanti è veramente mozzafiato. Di fronte un anfiteatro con pareti altissime chiude la bocca (o forcella) del Tuckett e alle spalle i grandiosi ghiacciai dell’Adamello e più in là dell’Ortles-Cevedale si ergono a sentinelle del creato.

Non siamo rocciatori, ma nella patria del 6° grado e delle vie di roccia, anche semplici e orgogliosi escursionisti come noi trovano il tempo di soddisfare il proprio modo d’intendere l’alpinismo, fatto non necessariamente di tiri di corda e moschettoni (e molte volte “invidiamo” e osserviamo con ammirazione i coraggiosi delle pareti), ma di sentieri e ghiaioni e nevai più o meno impegnativi e impervi, ma pur sempre dispensatori delle gratificazioni, curiosità, emozioni, difficoltà, soddisfazioni dell’alta quota.

Da “iene” consumate riusciamo a prenotare il posto letto per la sera. Al “Tuckett” la folla di alpinisti, escursionisti e semplici turisti è impressionante, tanto che oltre alle sale da pranzo interne (saranno 120 i coperti a cena) vi è anche un bar all’esterno e inoltre un altro rifugio adiacente, il “Sella”, funge solamente da dormitorio.

Apprendiamo che il rifugio è base di partenza per le varie vie ferrate che da nord a sud attraversano il gruppo. Il tempo fa le bizze e il pomeriggio se ne corre veloce. Marcello se ne va al Rifugio “Stoppani” per il timbro di rito e godersi i panorami verso Madonna di Campiglio e verso Tovel e la Vai di Non, mentre io mi fermo solitario lungo il sentiero a contemplare l’orizzonte in attesa poi di riunirci agli altri che se ne sono rimasti al rifugio a recuperare le energie e godersi perché no, le bellezze del “posto”.

Nel frattempo, un quinto “Bortolot”, Federico, ci ha raggiunti al Tuckett direttamente da Molveno, salendo in velocità e in solitaria il sentiero più diretto e sfidando se stesso e le proprie insicurezze tra le nebbie e i ghiaioni. Stanco ma felice si aggrega al gruppo tra abbracci e sorrisi di soddisfazione per l’amicizia che sempre più si rinsalda tra di noi.

La sera cala sulle dolomiti regalando scorci di tramonto rosso dorato tra le nubi che si inseguono e le stelle che fanno capolino e i fumi delle pietanze si spargono tra le tavole occupate da commensali intenti a progettare l’indomani tra cartine topografiche e imbracature.

Constatiamo con realismo (e senza polemica) che anche quassù il marketing della mezza pensione (su vivande singole non v’è differenza tra soci e non) l’ha spuntata sul romanticismo del minestrone con sconto CAI.

Boh, saremo retorici o antiquati, ma mentre trangugiamo primo, secondo, contorno, dessert, caffè e grappa, serviti da numerosi “camerieri”, pensiamo ai mitici rifugi di un tempo non lontano, veramente capisaldi d’alta quota, ove regnano l’atmosfera spartana eppur accogliente delle serate coi sacchetti delle vivande portate da casa sui tavoli e condivise fraternamente e il minestrone e il posto letto (limitato a pochi), barattati sconto soci CAI col gestore tuttofare, cameriere e chef, lavapiatti e informatore… tanto di cappello a coloro che più per passione che per reddito ancora riescono a gestire rifugi dove l’essenzialità viene vissuta da essi stessi e dagli ospiti come stile di vita. E comunque val bene qualche compromesso la scelta di vivere in alta montagna.

Divagando tra minestre e scelte di vita, la serata s’anima delle note inconfondibili di “Signore delle Cime”, canto finale dei molti che hanno intonato i corali provenienti da Schio (VI), facendo assaporare in toto l’atmosfera alpina all’interno del rifugio, con gli ospiti rapiti e inebriati dalle tonalità e dagli assoli, mentre in un angolo il figlio del gestore festeggiava il compleanno con alcuni amici coinvolgendo anche noi Bortolot in colossali brindisi, con Pio il cuoco, che sorseggiava da una bottiglia all’altra senza soluzione di continuità. La notte calava anche al Tuckett e pian pianino le voci si sono impastate del sonno di “Morfeo”.

La mattina seguente si parte di buon’ora per il rientro; il tempo, nonostante previsioni che davano bello, non promette niente di buono. Camminiamo lesti al cospetto di pareti verticali e del sole che gioca a nascondino. Avanti a noi un gruppo numeroso del CAI di Padova con guide e istruttori è già sul fronte del nevaio che copre il vallone che porta alla bocca di Tuckett. La sorpresa è che il ghiacciaio è duro (e detritico) e sul ripido anche la traccia di sentiero diventa difficile senza ramponi (che noi non abbiamo). Vista la grande difficoltà e tensione che attanaglia chi ci precede senza ramponi, decidiamo di aggirare verso destra l’imprevisto ghiacciato.

Scelta determinante in quanto risaliamo speditamente su irti gradoni di roccia e su roccette e poi quasi in piano arriviamo alla forcella sferzata da vento gelido foriero di pioggia, mentre il gruppo di Padova, forse mal consigliato, annaspa a metà nevaio tra scivoloni e imprecazioni. La discesa è lunga e ripida tra ghiaie e tornanti, rocce esalti.

Incontriamo alcune persone salire solo all’inizio del sentiero e poi è tutto un silenzio interrotto solamente dal nostro calpestio e dai camosci che si rincorrono oltre un costone.

Intanto il tempo peggiora e all’improvviso acqua a scrosci, vento freddo e grandine si rovesciano su di noi che giungiamo nuovamente fradici al Rifugio “Croz”; qui è un pullulare di turisti, escursionisti, di volontari del soccorso (è domenica e sulle Bocchette vi è una marea di “ferratisti”). Il gestore accende la stufa per farci asciugare gli indumenti, ringraziamo e ci infiliamo una pasta nello stomaco. In pochi minuti la pioggia cessa e l’atmosfera si fa frizzante e limpidissima tanto che finalmente le crode del Brenta si stagliano al cielo in tutta la loro splendente armonia, imponenti baluardi dai profili mutevoli. Le sensazioni accarezzano la mia pelle e i brividi di tanta bellezza percorrono la mia anima sino al cuore che collegato a occhi e mente richiama pensieri verso chi amo, al piccolo Leonardo, chissà, futuro alpinista, alla libertà delle vette.

Ma osservo i miei amici anch’essi rapiti all’insù in un apoteosi di sguardi, persi tra la bellezza, la maestosità ed i pensieri. Ridestandoci da cotanta contemplazione scendiamo velocemente a valle percorrendo cantando a squarciagola un magnifico sentiero incuneato tra rocce e vegetazione (e rincontriamo anche la coppia del primo giorno al Croz, che coincidenza e che risate).

Alle auto l’ultima foto di gruppo, un saluto e una cantata all’Albergo DesAlpes (simpaticissimi i proprietari), dove a giugno ero animatore con un gruppo di anziani di Vittorio Veneto e poi via.

Ci allontaniamo da Molveno con la malinconia che sale e allontanandoci guardiamo quei monti che per tre giorni ci hanno ospitato e hanno coccolato la nostra amicizia e in auto si commenta, si ride, si scherza, si fanno già progetti di anelli futuri, di Jof, di alta via 6… e intanto si arriva a casa e la vita di tutti i giorni ci avvolge nuovamente tra le sue maglie.

Il giorno dopo, una telefonata di uno dei miei amici… un grazie… e un magone mi assale, l’amicizia è un valore irrinunciabile, ancor più se vera e sincera.

Robi

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