Il Giardino del Re – Sul Catinaccio, a Rimirar le Torri del Vajolet

Estate avara di sole, Vigo… inizia in questo grazioso paesino della Val di Fassa l’avventura di quattro moschettieri delle crode: Franco, Marcello, Massimo e Roberto. La “tipo bianca”, contenitore di zaini, scarponi, spade e mantelli, si riposerà per alcuni giorni di fianco ad altri cavalli d’acciaio. La prima tappa è la funivia che in un battibaleno ci innalza senza fatica e con panorama a Ciampedie. Qui, in questa landa grigiastra, salotto di rupi, un abbraccio fraterno davanti ad una reflex cementa l’incipit del viaggio.

Roberto estrae dallo zaino magico quattro cappelli di paglia gialli con la scritta “raggio di sole” donandoli agli amici e auspicando che diventino ben presto il segno distintivo dei quattro durante i loro vagabondaggi tra le montagne. Il semplice ma significativo (e gradito dagli altri) gesto, crea la complicità necessaria al gruppo che se ne parte con direzione Catinaccio.

Nel fresco del bosco, sul sentiero, si odono canzoncine allegre e simpatiche che allietano i passi; la prima tappa è il Rif. Gardeccia. Un facile sentiero, intensamente frequentato da turisti di tutti i colori, introduce nelle viscere del massiccio montuoso e giunge con poca fatica al Rif. Vajolet, mastodontico punto d’appoggio per le escursioni nel gruppo Catinaccio-Latemar, affiancato dall’originale Rif. Preuss, costruito dalla famosissima guida Tita Piaz.

Al Vajolet, preso posto per il pernotto e svuotati gli zaini in camera (stanza da quattro nella dependance…hurrah!… forse si riesce a dormine), un buon tè caldo e siamo di nuovo in cammino, méta stavolta il Rif. Re Alberto I e poi su, al Rif. Passo Santner. Bello e articolato il sentiero, che all’interno di un catino ed in ripida ascesa, conduce sull’affascinante pianoro ove sorge il vecchio e pietroso Rif. Re Alberto I, ad un’ondata di sguardo dalle famosissime Torri del Vajolet. Che eleganti queste rocce! Canne di un organo turrito che svettano acuminate contro il cielo, lo infilzano per incanto. Pagine di storia dell’alpinismo si aprono ai nostri occhi sedotti da tale imponenza. Pinnacoli arditi su placche d’argento. In rifugio si conosce e si bluffano spiritosaggini.

Ad un tiro di schioppo, un po’ più in alto, sta adagiato il Rif. Passo Santner, sotto la cima del Catinaccio (Rosengarten, giardino delle rose). Qui giunti, questo minirifugio strategicamente appollaiato con vista sui declivi boscosi verso la Valle Isarco, è ristoro di “nicchia”. Tappeti di nubi volteggiano in aria e ogni tanto si apre una finestrella dalla quale si intravede Bolzano. Una caraffa di prosecco, che a Franco dalla faccia dev’essere costata un patrimonio, dà inizio alle danze, o meglio alle vocalità. Genti bergamasche, genti venete, tedeschi originali, gentili olandesi si accodano al coro che rintona sulle crode montanare e cappelli, campagnole e comari, osterie e vecchi scarponi. Appoggiati su tavoli in legno, mappe e grappe si confondono mirabilmente aromatizzate e gli itinerari si allungano per miraggio. Poi, al rintocco di Re Laurino, ce ne torniamo da dove siamo venuti e con le lunghe ombre della sera (e della “tola”) che ci seguono, arriviamo contenti al Rif. Vajolet.

Nella sala da pranzo si gigioneggia e si “giapponeggia”… scanzonati dialoghi in un improbo “anglofrancotedescomaccheronico” linguaggio, creano piacevoli intermezzi. Dei giovani giapponesi con macchina fotografica a tracolla, passano tra i tavoli ad offrire fette di anguria tra un piatto del montanaro e l’altro. La notte si corica con la luna e la mattina si sveglia con l’aurora.

Di buon passo saliamo al Rif. Passo Principe: siamo nel cuore del gruppo, tra ghiaioni e colatoi, massi e vedette, polveri e calcari. Una boccata d’aria e raggiungiamo il Rif. Bergamo; qui le lamentele del gestore si sprecano contro il tempo di quest’estate particolarmente inclemente. Percorso un bel tratto di sentiero in discesa, s’incrocia il sentiero del “buco d’orso”, che con una serie di serpentine e tratti attrezzati, artiglia il pendio superando un discreto dislivello. In salita, alzando la visuale, veniamo velocemente affiancati e superati in senso opposto da un nugolo di bikers americani, bici in spalla, in vena di evoluzioni spettacolari su e giù per i salti di sentiero.

Giunti al Rif. Alpe di Tires, è l’apoteosi dello strüdel. Ci stiamo già apprestando a ripartire, che quel fenomeno di Massimo si è invece preparato minuziosamente il suo picnic che con rito irrinunciabile sta per consumare. Improperi impronunciabili al suo indirizzo da parte nostra, costretti a ritardare la partenza, ma tant’è! Val la pena approfittare della sua generosità ed assaggiare le specialità della sua cucina portatile e al contempo godere con più pacatezza ed al meglio delle meraviglie di quei luoghi.

Ripreso il cammino, è una lunga e vallonata passeggiata su pendii erbosi, sul circo superiore dell’Alpe di Siusi, tra prati-giardino e cavalli avelignesi al pascolo piuttosto che mucche oziosamente distese o contadini al lavoro col fieno, nella loro caratteristica tenuta agreste. Paesaggi di un ondulato ricamo naturale che lentamente si cuce con le praterie del Sassopiatto.

Nell’idilliaco paesaggio che ora è davanti a noi si erge il Rif. Sasso Piatto. Abbiamo camminato tante ore dal mattino, Franco e Massimo si arrendono e si accampano al rifugio.

Marcello ed io invece ce ne andiamo tra le plaghe del Sassolungo fino al Rif. Sandro Pertini, così, per fare un giro. E dentro al rifugio, il gestore è un distillato loquace di racconti, aneddoti intarsiati di enfasi che svelano le visite del “grande vecchio”, il presidente Pertini, e delle sue partite a scopa coi forestali durante le scorribande estive dal Quirinale. Col gestore ed il suo cane che ci fa commovente compagnia, ci mangiamo una pasta; poi, al calar delle tenebre si torna verso il rifugio e ai nostri preoccupati amici. Una combattuta sfida a carte conduce le menti verso il riposo notturno, sinonimo di recupero di forze psicofisiche, e la quiete ritempra gli escursionisti col suo dolce torpore.

Una radiosa giornata splendente di sole irradia buonumore accecante… volgere lo sguardo al mondo intorno a noi è perdersi in un oceano di natura, soffici radure, labirintici corsi d’acqua, estese foreste, marmoree pareti, brioso ed innocuo rincorrersi di nuvole, spazi e cieli dominanti.

Carichi di ottimismo e recuperate le cianfrusaglie, ci muoviamo alla volta della terza tappa dell’itinerario. Ricalpestiamo a ritroso parte del sentiero del giorno precedente ed insieme camminiamo sulle belle fioriture di “anemone fragolino” ed “anemone delle Alpi”; ci addentriamo per i boschi e si materializzano la “piroetta soldanina” e la “linnea boreale”, per altro molto rara.

In fondo alla valle, attraversando una malga dalla vaga somiglianza ad un ranch del Far-West (Malga Docoldàura), ci imbattiamo in un acquitrino e spunta l’ ”erioforo” col suo grappolo di bianchi fiori cotonati e man mano che poi si sale sui pascoli sassosi dei crinali, tappeti di “margherita alpina” invogliano al “m’ama non m’ama”… Stanchi al passo Ciarègole, con un vento piuttosto fresco ed alle spalle il Gran Vernèl e la Marmolada, regina dei ghiacciai, insieme alle foto, stampiamo tra le pagine di un libro anche una “stella alpina”, da regalare all’amore della vita.

Poi è tutto un gran sentiero su ghiaioni, macereti e pietraie fin su al passo Dona (mantello) e tra una rupe e una fessura, fanno capolino la “sassifraga ruvida” e nascosto dentro ad un anfratto un bel ceppo di “ranuncolo dei ghiacciai”, notevoli ed attraenti fioriture in questo lembo d’estate.

Arrivati quindi nel profondo del gruppo, al Rif. D’Antermoia, che prende il nome proprio dall’omonima Cima, conosciamo il suo gestore, Almo Giambisi, guida alpina e grande alpinista-esploratore. Breve sosta e senza i fardelli sulle spalle andiamo sulla “spiaggia” del Lago d’Antermoia, vero antro glaciale coi suoi isolotti emergenti… i nostri gialli copricapo hanno avuto risalto, escursionisti di passaggio ci riconoscono oramai “raggio di sole” e istintivamente si fa gruppo e si canta felici. Genti dal Belgio, genti da Venezia, genti svizzere, gentili olandesi nuovamente a far serata, da “Gloria” a “Stand by me”, con palleggio corale a più lingue. Poi il rimbrotto divertito di Almo e si è in soffitta-camerone a rigirarsi tra materasso e tavolato, bisbigliando assonnati. Il nuovo giorno è un condensato di sfumature, tinte variegate trasportate dai fasci di luce solari nelle anse rocciose, nelle tortuosità degli itinerari, nei meandri della vegetazione.

Un’ottima colazione, i saluti ai simpatici gestori, cappello calzato in testa e i “Bortolot” partono per l’ultimo giorno su queste armoniche formosità di roccia. Il sentiero si ingrana verso il Catinaccio di Antermoia, lo aggira, lo fascia, lo accarezza l’Antermoia, gentilezza di pietra, isola aggraziata di un antico mare. Al Passo d’Antermoia ci si imbatte in un gruppo di camminatori vittoriesi (guarda un po’!). Un morbido ghiaione contempla le nostre peripezie immortalate dalla cinepresa (le rivedremo durante le lunghe sere d’inverno-speren!) e alla base si recupera il sentiero del primo giorno che conduce diretto al Rif. Vajolet. Da lì, uno scroscio continuo sino al Rif. Ciampedie, dove entriamo a cambiarci gli indumenti fradici in attesa di ridiscendere a Vigo.

Un’accanita partita a scopa svela innocenti accordi. Assorti contro i vetri del rifugio, gocce leggere disegnano scivoli sulle finestre… poi l’aria frizzante dopo il temporale sbatte i nostri corpi ridestandoci alla realtà del momento… si torna a casa!

Robi

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